È a tutti noto come il Titolo V della Costituzione distribuisca molte competenze fra Stato e Regioni negli articoli 117 e 118, ma è parimenti noto ad alcuni (non a tutti forse) che in un contesto stra-ordinario di emergenza sanitaria e di pandemia, la divisione competenziale viene ‘riscritta’ con la prevalenza della norma nazionale su quella regionale, soprattutto quando la materia riguarda le libertà fondamentali. Gli atti regionali non vengono certamente ‘azzerati’, ma devono avere una portata più restrittiva potendo specificare o in qualche caso aggravare quelli statali (limitatamente ad una frazione di territorio e per un tempo definito, e pertanto in modo motivato, ad esempio individuando le cd “Zone rosse” come la Calabria ha fatto in numerosi casi collegati a Rsa o ad altri fattori di rischio). In nessun caso, però, può contraddirli perché la conseguenza sarebbe quella di vanificare l’azione di contrasto al Covid-19 così come predisposta dallo Stato e dal Governo. In questa sede non si sta discutendo sulla opportunità/bontà o meno di una scelta anziché di un’altra, ma del fatto che lo Stato e solo lo Stato può decidere le condizioni sostantive di rischio sanitario, mentre la regione non può che seguire i valori sentinella (lo scrive il DPCM del 26 aprile nel suo testo e nei suoi allegati che sono in chiusura riassunti nei diagrammi di flusso dell’allegato n. 10). E il Governo sta decidendo – come è ben noto da febbraio – sulla scorta di un comitato tecnico scientifico che conferisce ragionevolezza scientifica alle decisioni nazionali assunte. Qualche giorno fa scrivevamo su questo stesso giornale (per esigenze di continuità argomentativa ne riprendiamo parzialmente il titolo) che proporzionata, anche al fine della tutela della salute e del contenimento dell’epidemia, sarebbe una organizzazione di allentamento del lockdown di tipo differenziato ovvero omogeneo, e scrivevamo anche che qui rientra la competenza della politica e che la scienza e il diritto devono fare un passo indietro, nel senso che non possono avere la pretesa di pronunciare l’ultima parola. Lo ribadiamo. Sottolineavamo, pure, che il Governo potrà sempre cambiare opinione innanzi all’evoluzione della situazione epidemiologica se a motivare tale cambiamento saranno, con le loro valutazioni tecniche, le autorità istituzionali sanitarie che lo supportano in tale decisione. Ricordato ciò, oggi affermiamo che al momento le competenze sono chiare, o almeno dovrebbero esserlo dopo i primi 90 giorni di emergenza nazionale (che iniziata il 30 gennaio sarà operativa fino al 30 luglio, per sei mesi). La necessarietà della riduzione delle spinte ‘localistiche’ e la necessità di una conduzione unitaria dell’emergenza ha spinto il Governo ad adottare diversi Decreti Legge (fonti primarie che garantiscono la tutela della riserva di legge richiesta dalla Costituzione), e ciò perché, lo si ripete, un contemperamento delle esigenze della differenziazione è richiesto per il tempo straordinario dello stato di necessità. Il decreto legge n. 6, poi abrogato dal n. 19, normava la disciplina nel suo art. 3 (Attuazione delle misure di contenimento), c. 2 che disponeva: “[n]elle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1, nei casi di estrema necessità ed urgenza le misure di cui agli articoli 1 e 2 possono essere adottate ai sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dell’articolo 117 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e dell’articolo 50 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267”. I poteri emergenziali, come si evince dalla normativa sopra richiamata (dallo stesso decreto legge), erano già nella disposizione dei Presidenti di Regione e dei sindaci, quindi, al fine di dare una precedenza omogeneizzante ai Dpcm attuativi del decreto legge, si limitava il potere emergenziale alla presenza cumulativa di due condizioni, vale a dire «nelle more» dei Dpcm e nei «casi di estrema necessità ed urgenza». Il problema interpretativo era quello per cui si lasciava alla discrezione (politico-istituzionale) degli organi di vertice degli esecutivi regionali e locali la definizione di quali fossero le concrete misure da adottare, oltre all’interpretazione per cui «nelle more» poteva comportare che il dies a quo ripartiva all’indomani dell’adozione di un nuovo Dpcm (sic!). L’alluvione degli atti adottati dimostrava l’inapplicabilità dell’articolo appena richiamato. È parso obiettivo da raggiungere quello di limitare ulteriormente le spinte localistiche con l’introduzione di vincoli ancora più rigorosi. Il decreto legge n. 19 del 25 marzo 2020 ha quindi prescritto ex art. 2, c. 2, che «[n]elle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1 e con efficacia limitata fino a tale momento, in casi di estrema necessità e urgenza per situazioni sopravvenute le misure di cui all’articolo 1 possono essere adottate dal Ministro della salute ai sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833». Le ordinanze, quindi, possono essere adottate dal solo Ministro della Salute e non più dai Presidenti di regione e dai Sindaci. A questi ultimi è ora ‘inibito’ l’esercizio del potere in modo diretto. L’art. 3, c. 2, infatti, dispone che “i Sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1”. Alle Regioni continua ancora ad essere riconosciuto il potere d’ordinanza ma limitatamente all’introduzione di ‘misure restrittive’ che – seppur «nelle more» – possono essere adottate «in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive […] esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale» (art. 3, c. 1). Dunque “sopravvenute”. Dunque correlate al “rischio sanitario”. Secondo l’art. 2, c. 1, del Dpcm del 26 aprile (ultimo atto illustrato da Conte in diretta tv domenica sera) le Regioni ‘monitorano’ con cadenza giornaliera l’andamento della situazione epidemiologica nei propri territori e, in relazione a tale andamento (sorveglianza sanitaria), le condizioni di adeguatezza del sistema sanitario regionale. […] mentre il Presidente della Regione propone poi, tempestivamente, al Ministro della Salute, le misure restrittive necessarie e urgenti per le attività produttive delle aree del territorio regionale specificamente interessate dall’aggravamento. L’emergenza Covid-19 comporta forti ripercussioni in primis sul diritto primario alla salute, con la conseguenza che anche per la c.d. ‘fase 2’ spettano allo Stato le norme che predispongono le misure a sua tutela e alle regioni quelle dal mero carattere residuale (ma non per questo meno importanti) come appena dimostrato riportando parte dall’ultimo Dpcm. Non v’è dubbio che la prima ordinanza numero 37 emanata dalla Presidentessa calabrese è illegittima quando adotta misure in contrasto a quelle nazionali perché tende ad affievolirle, ma lo è tale anche la numero 38 che restringe la libertà di circolazione rispetto a quanto previsto dall’art. 1, c. 1, del Dpcm del 26 aprile, che dispone (a partire dal 4 maggio) che “è in ogni caso consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza”. L’ordinanza n. 38 consente solo ai calabresi ‘residenti’ la possibilità di rientrare in regione e non consente i rientri presso il ‘domicilio’ o l’‘abitazione’ ai non residenti. Quindi, siamo in presenza di una palese violazione del principio di eguaglianza, in quanto, in relazione al rischio sanitario, la decisione non è assistita da motivazione. In altri termini, due domande sorgono a chi abbia a mente il decreto n. 19 che è base normativa del potere amministrativo in parola. La prima: dove sono individuate le richieste “specifiche situazioni ‘sopravvenute’ di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso”? La seconda: come si può adottare una ordinanza “nelle more” se l’atto regionale è del 30 aprile e il DPCM è già in vigore dal 26 aprile? Per la prima domanda non risulta – a parere di chi scrive – che siano individuate o individuabili, nel corpo della Ordinanza stessa, tracce adeguate di motivazione. Per la seconda domanda basta la mera interpretazione letterale dell’avverbio di tempo. L’Ordinanza regionale n. 38 della Calabria evidentemente pare essere viziata da abuso di potere (invalidante l’atto contingibile e urgente emanato dal Presidente Santelli) e il vizio – sempre a parere di chi scrive – risiede proprio nella irragionevolezza della decisione adottata (rispetto ai parametri tecnico-scientifici appropriati e rispettosi di standard omogenei) operata con la ingiusta discriminazione tra residenti e non-residenti/domiciliati/abitanti, discriminazione che non fa adeguato riferimento ad un concreto e dimostrato rischio sanitario differenziato tra le due categorie e dimostrabile in sede tecnico-scientifica. Di fatto e di diritto, con l’ordinanza n. 38 si chiudono ad alcuni (gli inesistenti) ‘confini regionali’, senza che tale chiusura sia attribuzione della Regione per come disposto dal chiaro articolo 120, c. 1, della Costituzione italiana che dispone: «[l]a Regione non può […] adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale». Le due ordinanze adottate (la 37 e la 38) sono quindi sostanzialmente e formalmente carenti delle basi legali che pure richiamano; non può esservi una ordinanza predisposta sulla base dell’art. 32 (Funzioni di igiene e sanità pubblica) della l. n. 833 del 1978 e tanto meno se priva dai caratteri della contingibilità e dell’urgenza. L’ordinanza n. 38 pecca poi di un’altra intrinseca irragionevolezza in quanto se la ratio della norma è quella di ‘proteggere’ i ‘calabresi’ (e solo quelli attualmente stanziati), allora dovrebbe durare per l’intera “fase 2”. L’uso congiunturale dell’epidemiologia non richiede altre parole. Si ricorda solo che la solidarietà non è esclusivamente una bella parola, ma un principio deontico (cioè doveroso). In buona sostanza, un’altra pagina che non si sarebbe dovuta scrivere nei tempi già bui del coronavirus, che non avrebbero voluto conoscere un aumento di incertezza lì dove già ce n’è tanta (anche giuridica), soprattutto in quei comuni in cui i sindaci cercano di bloccare le ordinanze regionali. Come si risolve? Con un passo indietro. In caso contrario sarà la giustizia ad essere chiamata ad intervenire (sia quella amministrativa sia quella costituzionale con un eventuale conflitto di attribuzione tra enti). Rimangono sempre aperte, ad ogni eventualità, altre due distinte ipotesi estreme, che qui ci si limita a richiamare, sperando che rimangano à la carte: la prima è l’applicazione dell’art. 120 Cost. (“Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni […] nel caso […] di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”), la seconda è l’applicazione dell’art. 126 Cost. (“Con decreto motivato del Presidente della Repubblica sono disposti lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge”).
Ugo Adamo, Silvio Gambino, Walter Nocito Costituzionalisti, docenti Unical
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