L’arcivescovo di Catanzaro risponde alla mail di una fedele. Nuove forme di spiritualità, la difficoltà di rinunciare alla messa: i dilemmi della spiritualità vissuta nel corso dell’emergenza sanitaria. «Nella crisi abbiamo riscoperto il senso del culto pubblico» Quella che segue è una risposta resa a una precisa domanda, pervenutami via email da una fedele cristiana della diocesi di Catanzaro-Squillace. Rendendola pubblica, penso che possa fare del bene a tutti, invitando a riflettere cristianamente non soltanto su urgenti temi di carattere generale, ma di cominciare a tracciare un bilancio della stagione del coronavirus e della pandemia che ne è seguita. 1. Nuove forme di direzione spirituale in tempo di pandemia. La ringrazio per la vicinanza e la fiducia che, attraverso la sua e-mail, sente ed esprime verso il Pastore della diocesi, da lei definita “fervida”, come anch’io spero che lo sia realmente sotto il profilo del fervore di fede, della religiosità popolare e della testimonianza cristiana. Con i ministri sacri, che indicano le orme da seguire a tutto il “gregge di Cristo”, ci si deve spesso confidare, come fa lei; e qualche volta anche “sfogare”, ponendo, come ora è accaduto, una serie di legittime domande sulla sospensione, delle “cerimonie religiose con il concorso dei fedeli nel pieno di questa pandemia”, che effettivamente ci rattrista e da cui speriamo di uscire tutti al più presto in benessere e salute. Quanto da lei utilizzato, lo ritengo un modo per ricorrere al consiglio o alla direzione spirituale, in qualche modo riscoperta dopo una stagione di generalizzato abbandono. È forse, questo, uno degli effetti positivi del pur terribile e letale coronavirus. Le dico subito – senza troppi giri di parole – che comprendo perfettamente e pienamente il suo stato d’animo, la sua amarezza. D’altra parte, chi potrebbe nutrire sentimenti diversi solo al ripensare all’immagine dei riti pasquali celebrati quasi in solitudine da papa Francesco, o al suo attraversare piazza san Pietro in solitaria e sotto la pioggia, il 27 marzo scorso? 2. Due ali per volare verso il vero della pandemia. Dobbiamo riconoscerlo: troppo spesso da parte delle autorità governative ma anche da noi stessi si è ritenuto che l’unica risposta alla pandemia fosse da trovare solamente negli ambiti, pur legittimi, della medicina (quali terapie da attivare per ridurre al minimo i danni del contagio), della biologia (quali farmaci ed eventuali vaccini che potrebbero prevenire le ondate di pandemia o almeno ridurne i danni), delle strategie politiche (quali ordinanze promulgare per evitare la principale fonte di contagio, ovvero gli assembramenti di persone), della finanza e dell’economia (quali misure adottare per ripristinare il lavoro in tante imprese ed anche strategie per ovviare al crollo dei mercati e all’impoverimento generale). Tutte risposte e strategie legittime, data anche l’urgenza dei fatti. Solo che le risposte si sono fermate al livello della salute e del benessere del corpo, considerando di secondo piano la salute delle anime (salus animarum). Se Dio non può volere il male, ma al massimo permetterlo per un disegno più grande, non si dovrebbe sentire l’esigenza di chiedergli incessantemente d’intervenire sulla sua creazione, perché fermi ogni male (libera nos a malo) e trasformi in bene disagi, sofferenze, dolore, morte? Alla salvezza, infatti, contribuiscono entrambe le ali: della scienza e della fede. Di qui, gentile signora, anche il suo legittimo stato d’animo e la sua giustificata amarezza. 2. Profili concordatari nelle limitazioni al concorso di popolo nelle chiese. Il profilo dal quale parte per porre le sue domande, tuttavia, è di tipo concordatario, ovvero riguarda i rapporti Stato-Chiesa, ovvero: come mai nella sua autonomia la Chiesa non ha rivendicato maggiore spazio pubblico per gli atti di culto, per la preghiera, per la devozione popolare? E dopo l’ultima conferenza-stampa e relativo nuovo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, si possono allargare le maglie soltanto sul numero dei partecipanti ai funerali, senza nulla prevedere sulle questioni essenziali della partecipazione ai sacramenti, soprattutto all’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana? È un profilo, questo, evidenziato dalla stessa Conferenza Episcopale Italiana. Difatti, rappresentando la posizione della Chiesa e il disagio di molti fedeli che si sono visti limitare la possibilità di recarsi a pregare nei luoghi di culto prima, durante e dopo Pasqua, a più riprese la Cei ha posto alcuni quesiti al Ministero dell’Interno, in particolare, sulla possibilità di raggiungere le chiese, la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni della Settimana Santa e la celebrazione dei matrimoni in chiesa. E ora, in vista della fase 2, un Nota non firmata della Cei ha puntualizzato che “I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. Non è soltanto in questione l’esercizio del culto e di legittimo spazio alla religiosità personale di ogni cittadino, ma è riconoscere la “pertinenza” del divino e del sacro come possibile strategia di ordine spirituale allo stato generalizzato di disagio, anzi di male, che angustia singoli e collettività. Di più: è riconoscere che il servizio ecclesiale ai poveri ha senso soltanto se sgorgante dalla dimensione di annuncio e di culto della comunità ecclesiale. Se l’arte e il canto hanno contribuito a sollevare gli animi intristiti dalla pandemia, perché non potrebbe farlo anche la musica dello spirito? 3. La Nota del Ministero dell’Interno e il nuovo Decreto per la fase 2. Come è noto, la nota ministeriale di risposta (27 marzo 2020) ai quesiti della Cei, (che sono anche i suoi) ci ha ricordato che la pandemia ha costretto l’autorità pubblica a limitare alcuni fondamentali diritti costituzionali, tra i quali quello della libertà di religione. Il motivo di “forza maggiore”, cioè la tutela della salute e il modo rapido e diffusivo del contagio da coronavirus, dunque ha spinto legittimamente, il Governo a limitare alcune libertà, tra le quali il concorso di popolo agli atti pubblici di culto. E sulla medesima linea, il Dpcm per la fase 2 continua a proporre (dal 4 maggio in poi) misure urgenti di contenimento del contagio, assicurando, per quanto riguarda quelle che continua a chiamare “le cerimonie civili e religiose” (ma gli atti culto non sono cerimonie!), qualche apertura soltanto per “le cerimonie funebri con l’esclusiva partecipazione di parenti di primo e secondo grado e, comunque, fino a un massimo di quindici persone”. Tanto il Concordato, quanto la fede ed il buon senso (semplice ragione) non potevano che suggerire qualche limitazione per tutelare un bene più grande (nel caso specifico, la salute pubblica). D’altronde, è vero che l’art. 19 della Costituzione prevede che i riti religiosi non subiscano altra limitazione a parte quella del buon costume (dunque non potrebbero essere conculcati per motivi di ordine pubblico). In questo senso, chiarisce il Ministero dell’Interno, le celebrazioni non sono in sé vietate, ma possono continuare a svolgersi senza la partecipazione del popolo, proprio per evitare raggruppamenti che potrebbero essere potenziali occasioni di contagio. 4. Frequentare le chiese subordinatamente a uscite più“essenziali”? È evidente che l’articolo 19 della Costituzione va letto insieme all’art. 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950), per la quale la legge di un singolo Stato può stabilire limitazioni alla libertà di manifestazione di religione in presenza di motivi di salute pubblica. Teniamo presente che la Convenzione è nata in seno al Consiglio d’Europa, al quale anche la Santa Sede partecipa come “osservatore”. In particolare, secondo l’interpretazione della Nota ministeriale, le disposizioni governative limitano il diritto di uscire di casa per accedere agli edifici di culto, consentendo, tuttavia, di accedervi subordinatamente agli «spostamenti determinati da comprovate esigenze lavorative, ovvero per situazione di necessità e che la chiesa sia situata lungo il percorso», di modo che, in caso di controllo da parte delle Forze di polizia, possa essere accertato il motivo di necessità. Come dire che probabilmente si è ritenuto prioritario provvedere ai mezzi essenziali di sussistenza e solo subordinatamente permettere di visitare in chiesa il santissimo sacramento dell’altare? Quanto alla richiesta partecipazione di almeno poche unità ai riti della Settimana Santa, la nota precisò che il «servizio liturgico, pur non essendo un lavoro, è assimilabile alle ‘comprovate esigenze lavorative’». Su questa assimilazione del servizio liturgico alle esigenze lavorative, ci sarà da discutere molto in sede teologica e pastorale, ma resta che la decisione limitativa degli atti di culto è considerata un impianto di fondo nell’orientamento del governo, anche dopo le sollecitazioni della CEI, che comunque non contestava, ma aderiva pienamente alle disposizioni di tutela del benessere pubblico. 5. Legittimi interrogativi e altrettanto legittime risposte. Si domanda legittimamente lei, se non sia stato forse mortificato l’esercizio del diritto di professare liberamente la nostra fede religiosa, in quanto recarsi in chiesa risulta subordinato ad altre destinazioni ritenute più importanti, quali andare dal tabaccaio, portare fuori il cane, acquistare alimenti. E, per quanto concerne il Decreto per la fase 2, certamente lei si domanderà se non sia stato troppo riduttivo preoccuparsi più dei funerali che della Messa, al punto che, dopo la legittima protesta della CEI, il Governo ha dovuto sollecitamente assicurare “un protocollo che consenta quanto prima la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche in condizioni di massima sicurezza”. È vero: l’Autorità ministeriale, sostituendosi in parte all’Autorità ecclesiastica, si è spinta fino ad elencare le persone ammesse nelle chiese, non limitandosi a contarne la quantità, ma descrivendole secondo i ministeri liturgici, cioè limitando l’accesso «ai celebranti, al diacono, al lettore, all’organista, al cantore ed agli operatori per la trasmissione». In ogni caso, è rimasto escluso da ogni atto di culto e devozione il concorso del popolo. Ma siamo davvero sicuri che la domanda debba essere posta così come lei la pone? La sofferenza, palpabile, è innegabile. La rinuncia alle manifestazioni liturgiche e alle espressioni della pietà popolare, è stata dolorosissima, particolarmente per il nostro Sud dove essa non è soltanto una manifestazione folcloristica, ma vera religione popolare e dove nessun credente sarebbe disponibile a “viralizzare” la celebrazione domenicale e, più in generale, la Liturgia. Ma pure in questo quadro a tinte fosche, non sono mancate le luci. A me pare che la chiusura di ogni chiesa (il riferimento è volutamente provocatorio, visto che nessuna chiesa è stata mai chiusa, ma è stato consentito ai fedeli di recarvisi per momenti di preghiera in solitudine o comunque nel rispetto delle norme di prevenzione) abbia portato all’apertura di migliaia di altre “chiese”, le ecclesiae domesticae. Posto che viene il tempo in cui non si adora né su un monte, né in un tempio, abbiamo constatato effettivamente, grazie alle limitazioni, che «i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori» (Gv 4,23). Per una volta, infatti, e da tanto tempo non accadeva, la fede intima è stata vissuta anche pubblicamente: nelle case, dai balconi, nelle scale dei condomini, in spirito. Quanti sacerdoti hanno celebrato messa nel silenzio delle chiese, ascoltati in migliaia di abitazioni attraverso i canali facebook? Quanti milioni di italiani, a più riprese, hanno ascoltato il Verbo dalla voce del Papa, seguendolo in preghiera sul piccolo schermo? Quanta gente, in questo periodo di apparente estraniamento dalla normalità, si è fermata a riflettere su se stessa, sulla condizione propria e del prossimo, riscoprendo peraltro in tempi di lontananza il valore della vicinanza? Quante famiglie, esercitando il sacerdozio battesimale, hanno benedetto la mensa, pregato insieme il Rosario, approfondito le letture liturgiche del giorno? Quanti hanno colto finalmente la connessione tra atti di culto e prossimità ai più disagiati, posto che ogni raccolta, offerta, contributo… è sempre finalizzato al sostentamento dei ministri del culto e, soprattutto, al sovvenire alle esigenze e necessità degli invisibili e dei poveri? 6. Alcuni risultati in orizzonte più ampio. Paradossalmente, il divieto di concorso di popolo nella frequenza degli edifici di culto ci ha fatto riscoprire il senso del culto pubblico. Abbiamo constatato che il web non è soltanto uno dei tanti mezzi di comunicazione sociale, ma qualcosa di più; è diventato il modo virtuale, ma reale, di essere e di vivere nella new techonology Era. Da luogo che dà una certa idea di comunità, stiamo forse passando a un luogo che crea comunità, ossia da spazio soltanto comunicativo a spazio anche liturgico? In questa linea, non a caso, si è mosso il Dicastero pontificio per la comunicazione con il libro “Forti nella tribolazione”, disponibile gratuitamente: aiutare a scoprire la vicinanza di Dio in un contesto dove, guardandosi intorno, sembra di scorgere solo dolore, sofferenza, paura, solitudine, isolamento. Come continuare a vivere i sacramenti nell’era della riscoperta del web come unico modo per essere vicini, pur se distanti e sentirsi popolo di Dio pur senza concorso di popolo nei luoghi sacri? Abbiamo, tra l’altro, riscoperto la comunione spirituale e appreso che si può ottenere il perdono dei peccati con l’atto di contrizione, stante l’impossibilità di confessarsi individualmente. È vero: le limitazioni, ci sono state, e sono state dure, e ora vanno legittimamente allentate in analogia con altri comparti della società; ci hanno imposto, come cattolici che intendono e debbono anche pubblicamente manifestare la propria fede religiosa, di pagare un duro prezzo. Ma col sacrificio patito è stato possibile piantare il seme della Speranza. E toccherà a tutti noi, quando le restrizioni saranno almeno allentate, oltre a compiere le opportune verifiche nelle sedi competenti, evitare che tutto ricominci come prima, senza tener conto di ciò che è stato e del nuovo inizio al quale, nei giorni passati in casa da reclusi, tutti abbiamo pensato, per noi e per gli altri. 7. Mancate opportunità e testo concordatario. Tra l’altro, gentile signora, lei lamenta le “mancate processioni benedicenti con il Crocifisso o immagini della Vergine Maria per le strade solitarie di piccoli paesi con la sola presenza del sacerdote”. Per salvaguardare la salute di tutti, la Chiesa ha dovuto riscoprire il valore intrinseco delle processioni e delle celebrazioni anche in assenza di popolo e ha dovuto offrire riti e celebrazioni con modalità non in “presenza”. In merito, i controlli delle forze di polizia, che sono scattati qua e là, mai avrebbero potuto prevedere, ai sensi del Concordato, l’ingresso in chiesa di “persone armate” e, in caso di controllo delle regole da parte di persone non armate, esse non potevano essere limitative o interruttive della celebrazione in corso e comunque sempre subordinate a un previo avviso al ministro di culto. Oggettivamente non soltanto ha ragione, ma potrebbe verificare, caso per caso e con la consulenza di legali, se non esistano gli estremi della violazione dell’art. 405 del Codice penale, che al comma uno sanziona chiunque impedisca o turbi l’esercizio di funzioni e cerimonie di un culto religioso; ed al comma 2 chiunque compia atti di violenza o minacci persone radunate per un culto (una persona armata è una “minaccia di violenza”?). Insomma, pur se con limitazione nel numero dei partecipanti (per motivi di tutela del bene maggiore), l’atto di culto deve restare in Italia un atto di culto pubblico ed esige libertà, pena la lesione di un diritto umano la cui doglianza potrebbe anche pervenire alla Corte europea dei diritti umani. 8. Il coraggio, uno non se lo può dare? Ed infine, ecco il suo motivo, di maggiore sofferenza: “La mancata difesa in troppe occasioni da parte della Chiesa e dei suoi Pastori nei confronti di sacerdoti impegnati a curare e consolare le tante anime tribolate in questo difficilissimo momento”. Certo, anche don Abbondio cercava di giustificare la sua ignavia borbottando che il coraggio uno non se lo può dare, se non ce l’ha. Per quanto mi riguarda, non soltanto difendo, ma sono accanto a tutto il Collegio presbiterale della diocesi di Catanzaro-Squillace, particolarmente a coloro che, nel rispetto delle leggi e in maniera creativa, stanno consolando e facendo percepire alla gente la tenerezza di Dio. Sono tantissimi quelli che si mantengono in contatto con il popolo, in maniera reale seppur virtuale. Presto, si spera, pur con tutte le limitazioni per la pubblica incolumità, si potranno avere contatti con gli ammalati, le persone sole, i carcerati, i morenti. Compito dei sacerdoti, come pastori, è quello di ricordare ai fedeli che non sono soli, perché sono parte di una comunità ecclesiale, anche se temporaneamente non ci si frequenta vis-à-vis. Anche se siamo isolati, il pensiero e lo spirito possono andare ben lontano con la creatività dell’amore. Nessun membro del clero è in vacanza e, pur osservando la distanza fisica, i sacerdoti devono rimanere vicini al loro popolo ed esserne un punto di riferimento. 9. La fede è sempre “pubblica”, come il culto cristiano. Con la forza che proviene dalla Fede e dalla Speranza, che non devono mai abbandonarci, possiamo oggi tirare un sospiro di sollievo: se, dietro il paravento della pandemia e dei provvedimenti di legge promulgati per contenerla, qualcuno voleva ridurre la fede a fatto privato, non ce l’ha fatta, ha perso la battaglia. La fede è sempre pubblica, mai privata, né è una semplice cerimonia rituale. Lo dimostrano la sua lettera e la sua passione, affatto isolate. Lo attestano i parroci che hanno tutti compiuto il proprio dovere. Lo conferma il lavoro dei Vescovi italiani e la loro opera di tessitura nella trattativa con il Governo. Ed ancora, con un pizzico di bonaria provocazione, più che altro finalizzata a favorire una riflessione sul punto, credo giusto interrogarsi anche, come accennavo, sul rapporto tra scienza e fede, o meglio sulle conclusioni accreditate delle scienze mediche, biologiche e genetiche e le conclusioni della fede mediante la quale tutti noi esercitiamo il credere: il concorrere responsabile della Chiesa, all’osservanza delle norme dettate per la tutela della salute pubblica, sono state solo subìte o – al contrario – non possono ritenersi il frutto di decisioni, di certo, preminentemente scientifiche, ma collocabili in quel quadro in cui la scienza è anche fede, se il suo fine ultimo ed allo stesso tempo primario è la difesa dell’uomo, di cui la Chiesa cura sì la dimensione spirituale, ma pur sempre con esiti sul benessere del corpo e della mente, oltre che dello spirito?
Con stima e cordialità.
*Arcivescovo di Catanzaro Squillace
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