L’allarme era stato già lanciato esattamente due anni fa, a inizio 2018, fa quando la stessa Procura di Cosenza fece scattare l’operazione “Cloaca Maxima” che mise in luce come la “fogna più grande” si estendesse da Rende fino alla Sibaritide. I fatti raccontavano che l’impianto “Coda di Volpe” era stato sequestrato i primi di febbraio. Il capo dei pm di Cosenza, Mario Spagnuolo, nel corso della conferenza stampa dove aveva presentato i risultati del lavoro fin lì svolto, aveva detto chiaramente che «non si voleva depurare. L’inchiesta continua, è un lavoro che ancora non è finito». Le intercettazioni telefoniche e le telecamere sistemate all’interno e all’esterno del depuratore permisero anche in quel caso agli inquirenti di capire come funzionava il sistema. I dipendenti, infatti, azionavano dei bypass che favoriva lo scarico illegale di un grande quantitativo di liquami direttamente nel Crati senza che le acque venissero depurate. Anche in quel caso, da quanto emerse, due questioni rimanevano aperte: la prima è che odori e sversamenti ancora continuavano. La seconda, strettamente collegata alla prima, è che i liquami della rete fognaria di un circondario che conta oltre duecentomila abitanti continuavano a finire in parte nello Ionio, perché il Crati termina in mare nell’area dei Laghi di Sibari, al confine tra i Comuni di Cassano Ionio e di Corigliano-Rossano. In questa zona, per trecento ettari, si estende la riserva naturale della “Foce del Crati” e l’acqua viene utilizzata per l’irrigazione dei campi della Sibaritide, uno dei due motori produttivi dell’intera Regione, conosciuta come zona di produzione ortofrutticola pregiata in tutto il mondo. Nell’anno (2018) in cui le clementine di Sibari fecero bella mostra di sé a Sanremo emerse che i liquami del depuratore consortile “Valle Crati” (che serve il comune di Cosenza più altri diciannove dell’hinterland) almeno in parte, sarebbero finiti per irrigare i campi coltivati della Sibaritide, dove l’agrume e altri frutti vengono prodotti. La certezza che questo non avvenga più venne affidato al prosieguo delle indagini che, stando alle allora dichiarazioni del Procuratore Spagnuolo, erano ancora in corso. Quello che emerse con certezza grazie al lavoro dei carabinieri forestali di Cosenza era che schiuma bianca e acque maleodoranti vennero analizzate portando alla luce la presenza di agenti inquinanti oltre i livelli consentiti dalla legge. La contaminazione del fiume sarebbe, secondo gli investigatori, avvenuta volontariamente per ridurre i costi della depurazione. Il cerchio si è chiuso pochi giorni fa con l’operazione “Arsenico” condotta dalla stessa Procura di Cosenza e dal NIPAAF Carabinieri Forestale di Cosenza e dalla Compagnia dei Carabinieri di Rende quando eseguirono un’ordinanza dispositiva di misure cautelari reali e personali per il reato di “inquinamento ambientale”. Dalle intercettazioni e dall’attività investigativa classica è emerso che diversi soggetti si sono resi responsabili del reiterato sversamento nel fiume Mucone (in agro del Comune di Bisignano) di ingenti quantitativi di rifiuti speciali pericolosi – provenienti da numerosi siti industriali ubicati in Campania, Basilicata, Puglia, Sicilia e Calabria – e reflui fognari non correttamente trattati e depurati, cagionando la compromissione ed il deterioramento delle acque e del relativo ecosistema, con alterazione della composizione chimica, fisica e batteriologica, nonché dell’aspetto esteriore, del colore e dell’odore. Da fonti di stampa è emerso che, tra gli altri, rifiuti dall’Ilva di Taranto e dalla Pertusola Sud di Crotone, venivano sversati nel Mucone. In particolare, i rifiuti speciali venivano conferiti presso l’impianto di trattamento che avrebbe dovuto trattarli per ridurre il livello di elementi inquinanti entro i limiti previsti. Tale processo invece non avveniva perché gli indagati, tramite una condotta di bypass, utilizzata esclusivamente nelle ore notturne, scaricavano ingenti quantitativi di rifiuti liquidi, senza sottoporli a trattamento, direttamente nella condotta fognaria di scarico e quindi nelle acque del Fiume Mucone, ove sono stati rilevati, come si evince dai campioni esaminati dall’Arpacal, livelli altissimi di elementi inquinanti, con concentrazioni anche superiori di 40.000 volte rispetto al limite di legge. Ma il Mucone è un affluente del Crati e anche in questo caso si è ripresentata la stessa situazione di “Cloaca Maxima” dove una parte dei rifiuti arriva nella Piana di Sibari dove la sua acqua potrebbe essere utilizzata per l’irrigazione degli ortofrutteti. Il caso è all’attenzione della Commissione “Agricoltura” del Senato e della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti che nelle prossime settimane farà visita alle aree contaminate. Bisogna chiarire l’entità del danno ambientare e se questi rifiuti possano aver contaminato falde acquifere e insediamenti produttivi. |