Certamente qualcuno non capirà o non apprezzerà quello che mi appresto a scrivere. Si dirà che non è il momento delle polemiche e che sarebbe il caso di rimanere in silenzio, e del resto è anche questo un atteggiamento senz’altro legittimo che aiuta a metabolizzare l’accaduto e merita rispetto. Io, però, credo che una simile tragedia debba necessariamente spingerci a fare delle riflessioni sulla qualità della vita che stiamo regalando alle nuove generazioni, sul modo di gestire i territori e i luoghi dove questi nascono e si ritroveranno a vivere. Riflettere, ragionare, cercare di capire la causa anche indiretta di ciò che di brutto ci accade è l’unico modo per evitare che fra qualche giorno, mese o anno ci si dimentichi di tutto, salvo poi tornare a piangere alla prossima tragedia. Ma neanche quello sarà il momento delle polemiche, perché anche allora sarà preferibile rimanere in silenzio e rispettare il dolore. Vengo al punto: al di là della dinamica specifica dell’incidente di ieri, quante volte è capitato ad ognuno di noi di vedere ragazzini in bici, con trabiccoli a rotelle, pattini o palloni, confinati in strettissimi marciapiedi, o costretti a transitare a pochi centimetri da automobili a loro volta imbottigliate in strade strette, trafficatissime e accidentate, che spesso e volentieri vengono anche occupate e ulteriormente ristrette in maniera abusiva con gazebo, palazzi e barriere architettoniche di varia natura, che alzano il valore e la qualità delle proprietà, ma abbassano irrimediabilmente quello delle nostre vite? Lo scalo cittadino è un incubo a cielo aperto, e nel centro storico non va meglio, visto che si preferisce distruggere quei pochi luoghi di aggregazione per ragazzi come i campetti da tennis per continuare a vomitare ovunque inutile cemento. In nome della speculazione edilizia abbiamo sottratto - e continuiamo a sottrarre - spazi vitali ai nostri ragazzi. Anziché costruire per loro città a misura d’uomo, li stiamo condannando a vivere in grigi agglomerati di palazzi privi di un’anima, senza vie di fuga, collegamenti e spazi per respirare, dove è impossibile passegiare, pedalare o tirare due calci ad un pallone senza dover fare gincana fra macchine, marciapiedi alti e accidentati, buche, transenne. Avevamo il diritto di scegliere per loro uno stile di vita talmente innaturale da non contemplare nemmeno il diritto di avere spazi dove poter giocare senza pericoli? Molti anni fa qualcuno certamente più saggio di noi amava ricordare che la terra non è un’eredità dei nostri padri, ma un prestito da restituire ai nostri figli. Noi l’abbiamo dimenticato, svendendo i loro spazi e la loro vita, scegliendo colpevolmente di farli crescere in luoghi grigi, tristi e pericolosi. E non stiamo facendo nulla per invertire la tendenza. Un abbraccio ai familiari del piccolo Federico, per quel pochissimo che conta il mio pensiero è rivolto a voi. |